Consigli di lettura – Shoah e Memoria – gennaio 2022

A cura del Team Biblioteca

 

Majgull Axelsson, Io non mi chiamo Miriam

“«Io non mi chiamo Miriam», dice la protagonista il giorno del suo ottantacinquesimo compleanno quando il figlio le regala un bracciale d’argento di un artigiano zingaro con inciso il suo nome. Quella che le sfugge è una verità tenuta nascosta per settant’anni, da quando la ragazzina rom di nome Malika salì su un convoglio in partenza da Auschwitz per Ravensbrück: un pezzo di pane che aveva in tasca scatenò una rissa dopo la quale, per non farsi fucilare, infilò i vestiti di una coetanea ebrea morta durante il viaggio. Così Malika indossò la stella di David, diventò Miriam, sopravvisse ai lager, si ritrovò in Svezia degli anni Cinquanta (una società incapace di comprendere veramente le atrocità subite nei campi di concentramento e in generale la guerra in tutto il suo orrore) e poi ospite di una signora bene della Croce Rossa… Il costante timore di essere scoperta e il dramma di una vita trascorsa a mentire, negando i ricordi e gli affetti del passato per paura di ritrovarsi sola, il problema dell’identità – etnica, nazionale, culturale, ma prima di tutto personale – nelle sue molteplici sfumature: raccontando un volto meno conosciuto dell’Olocausto, Io non mi chiamo Miriam parla a questi tempi segnati dal sospetto verso l’«altro», e forse anche da una confusa incertezza su chi siamo e dove andiamo”.

 

 

 

O. Guez, La scomparsa di Josef Mengele

“Buenos Aires, giugno 1949. Nella gigantesca sala della dogana argentina una discreta fetta di Europa in esilio attende di passare il controllo. Sono emigranti, trasandati o vestiti con eleganza, appena sbarcati dai bastimenti dopo una traversata di tre settimane. Tra loro, un uomo che tiene ben strette due valigie e squadra con cura la lunga fila di espatriati. Al doganiere l’uomo mostra un documento di viaggio della Croce Rossa internazionale: Helmut Gregor, altezza 1,74, occhi castano verdi, nato il 6 agosto 1911 a Termeno, o Tramin in tedesco, comune altoatesino, cittadino di nazionalità italiana, cattolico, professione meccanico. Il doganiere ispeziona i bagagli, poi si acciglia di fronte al contenuto della valigia piú piccola: siringhe, quaderni di appunti e di schizzi anatomici, campioni di sangue, vetrini di cellule. Strano, per un meccanico. Chiama il medico di porto, che accorre prontamente. Il meccanico dice di essere un biologo dilettante e il medico, che ha voglia di andare a pranzo, fa cenno al doganiere che può lasciarlo passare. Cosí l’uomo raggiunge il suo santuario argentino, dove lo attendono anni lontanissimi dalla sua vita passata. L’uomo era, infatti, un ingegnere della razza. In una città proibita dall’acre odore di carni e capelli bruciati, circolava un tempo agghindato come un dandy: stivali, guanti, uniforme impeccabili, berretto leggermente inclinato. Con un cenno del frustino sanciva la sorte delle sue vittime, a sinistra la morte immediata, le camere a gas, a destra la morte lenta, i lavori forzati o il suo laboratorio, dove disponeva di uno zoo di bambini cavie per indagare i segreti della gemellarità, produrre superuomini e difendere la razza ariana. Scrupoloso alchimista dell’uomo nuovo, si aspettava, dopo la guerra, di avere una formidabile carriera e la riconoscenza del Reich vittorioso, poiché era… l’angelo della morte, il dottor Josef Mengele”.

 

 

 

Otto Friedrich, Il regno di Auschwitz 1940-1945

“C’è un evento chiave nella storia di Auschwitz. Il 12 maggio del 1942, un convoglio da Sosnowiec scarica 1500 ebrei che, per la prima volta, non vengono né internati, né selezionati per le squadre di lavoro, né picchiati o freddati con un colpo di pistola. Vengono inviati direttamente alle camere a gas. Così si compie il destino di Auschwitz: non più un campo di concentramento né di lavoro coatto, ma una colossale macchina progettata per l’annientamento sistematico di esseri umani. Attraverso le testimonianze dei sopravvissuti e dei carnefici, “Il regno di Auschwitz” descrive questa tragica parabola, fino all’evacuazione del gennaio 1945. Nessuno sa quanti abbiano perso la vita dietro quel filo spinato. E nessuno lo saprà mai, visto che i nazisti bruciarono tutti i documenti abbandonando Auschwitz, rendendo incalcolabile il numero effettivo delle vittime. Il comandante del campo Rudolf Höss, processato dopo la guerra, si dichiarò responsabile dell’eliminazione di due milioni e mezzo di persone, più «un altro mezzo milione di morti per fame e malattie». Poi però aggiunse: «Non ho mai saputo il numero complessivo e non ho modo nemmeno di stimarlo». Ma, per quanto suoni terribile dirlo, il punto non è quanti ebrei siano stati uccisi. Il punto è che l’obiettivo era ucciderli tutti. È questo che definisce il genocidio. “Vernichtung”, annientamento. E Auschwitz ne è il simbolo, il più eloquente di tutti, perché più di tutti gli altri campi dette il suo spaventoso contributo alla Soluzione Finale. È per questo che la storia umana può solo dividersi in un prima e un dopo Auschwitz”.

 

Edith Bruck, Il pane perduto

“Ungheria, anni ‘40. Edith corre scalza sotto il tiepido sole primaverile, le trecce bionde ondeggiano con lei. Ultima di sei fratelli, è anche la più brava della classe. Un giorno le cose cambiano: mentre torna da scuola dei ragazzi più grandi la canzonano per il fatto di essere ebrea. Poco dopo un treno avrebbe portato ad Auschwitz lei e gran parte della sua famiglia.

Edith sopravvive agli orrori dei campi di concentramento nei quali viene spostata: Auschwitz, Dachau, Bergen-Belsen. Attraversa l’inferno sulla terra e ne esce mano nella mano con la sorella. Tornano a casa, ma trovano solo macerie e ostilità. Si ricongiungono con i fratelli, ma non c’è quel calore che immaginavano. Scheletriche, sembrano fantasmi di un altro mondo. Edith raggiunge la sorella in Israele, poi parte con una compagnia di danza. Balla bene, ma vuole scrivere. Nel 1959 viene pubblicato il suo primo libro, Chi ti ama così, nel 1962 la raccolta di racconti Andremo in città. E poi ancora romanzi, poesie e traduzioni. Edith Bruck al primo segnale di improvvisa amnesia ha ricominciato a battere in bianco e nero la sua storia, consegnandoci così la sua personale esperienza  nella selva oscura del Novecento. Il libro si conclude con una toccante “Lettera a Dio””.

 

F. Uhlman, L’amico ritrovato

“Germania, 1933. Due ragazzi sedicenni frequentano la stessa scuola esclusiva. Uno è figlio di un medico ebreo, l’altro è di ricca famiglia aristocratica. Tra loro nasce un’amicizia del cuore, un’intesa perfetta e magica. Riuscirà a non essere spezzata dalla Storia? Racconto di straordinaria finezza e suggestione, L’amico ritrovato è apparso nel 1971 negli Stati Uniti ed è poi stato pubblicato in tutto il mondo con unanime, travolgente successo di pubblico e critica. “Un’opera letteraria rara”, lo ha definito George Steiner sul New Yorker. “Un capolavoro”, ha scritto Arthur Koestler nell’introduzione all’edizione inglese del 1976. “Un libro che assilla la memoria… una gemma”, “Un racconto magistrale”, hanno fatto eco The Sunday Express e The Financial Times di Londra. E infine Le Monde di Parigi: “Uno dei testi più densi e più puri sugli anni del nazismo in Germania… Tra i romanzi più belli che si possano raccomandare ai lettori, dai dodici anni in su. Senza esitazione” “.

 

L. Cognolato, S. Del Francia, La musica del silenzio

“A Budapest Raul conduce una vita felice e spensierata, cadenzata dagli allenamenti in piscina con il padre, le lezioni di pianoforte con la madre, i bisticci con Marian, la sorellina, i costumi di Papageno e Astrifiammante che la mamma confeziona per la festa di Purim. Tutto finisce con l’arrivo dei tedeschi e la presa del potere dei nazisti ungheresi. Raul vive come un dramma e un’umiliazione continua la nuova situazione, soprattutto a scuola, mentre Marian riesce a trovare sempre un aspetto divertente in ogni cosa.  Un giorno il padre, in giro per la città alla ricerca di documenti, non fa più ritorno a casa e la madre viene portata via dai soldati. Da questo momento i due fratelli devono pensare a sopravvivere, contando solo sulle proprie forze. Nello scenario di una città stretta tra le truppe sovietiche che avanzano e l’esercito tedesco in sanguinosa ritirata, Marian trascina il fratello da un rifugio all’altro, alla ricerca di un principe misterioso che sembra uscito da Il flauto magico. Il principe in realtà è un finto ambasciatore spagnolo: Giorgio Perlasca, un italiano che a Budapest salvò più di cinquemila ebrei”.