Identità e alterità: dalla logica esclusiva all’identità relazionale

articolo di Anna Taglioli

Quando parliamo di identità parliamo del nostro modo di essere e di vivere nel mondo, parliamo della nostra memoria che ci permette di collegare eventi passati ad un presente da vivere e ad un futuro da immaginare e progettare, parliamo delle nostre relazioni con gli altri, gli altri che ci fanno da specchio, gli altri che diventano un contraltare, gli altri che ci spaventano perché ci ricordano chi siamo e non vorremmo essere o viceversa chi non siamo ma desidereremmo essere, che ci mettono di fronte ai nostri tanti ruoli, ai nostri tanti modi di narrarci, di viverci, di sperimentarci, ma anche di essere visti e narrati.
L’identità assume il volto della relazione con l’altro, è sempre in rapporto all’alterità, nel dialogo con l’altro io posso comprendere aspetti di me che non avevo mai preso in considerazione. Questo è il presupposto per la costruzione di una società di individui liberi ed uguali che si progetta in una sfera pubblica dialogica aperta anche al dissenso, alle resistenze e alla valorizzazione delle diversità.
Se perdiamo il carattere riflessivo e relazionale dell’identità, se la crediamo fissa, coriacea e chiusa, creiamo delle logiche di dogmatismo e di stigmatizzazione che in seguito producono disuguaglianza sociale.
Quando parliamo di stigmatizzazione intendiamo un processo di etichettamento sociale, di declassamento di una persona o di un gruppo sociale in base ad un attributo ritenuto non desiderabile (Goffman 1963). Può trattarsi di un attributo e di un conseguente stigma per condizioni fisiche, per aspetti criticabili del carattere (mancanza di volontà, passioni sfrenate o considerate innaturali, credenze dogmatiche) oppure stigma collettivi tribali della razza, nazione e religione. Lo stigmatizzante, ovvero la persona o il gruppo sociale che si considera ‘normale’crede che la persona con stigma non sia umana a tutti gli effetti e sulla base di questa considerazione mette in piedi una teoria dello stigma, una ideologia atta a spiegare la sua inferiorità e a legittimare la discriminazione e la disuguaglianza sociale che ne conseguono.
In quest’ottica intendiamo per disuguaglianza sociale un diverso trattamento riservato ad uno o a più individui in virtù di una loro diversità sociale significativa.
Stigmatizzazione e disuguaglianza sociale si legano alle logiche di potere e all’autoreferenzialità identitaria, la storia ce lo insegna, sono costruzioni sociali che si riconoscono e si nascondono contemporaneamente, sono meccanismi creati in determinati momenti storici che si ripresentano ciclicamente in forme diverse, ma con le stesse intenzioni, cercando di arginare i meccanismi della memoria che invece ci difendono di fronte al presentarsi dello stesso esiziale errore.
A difenderci, attraverso la memoria, l’analisi di quella costruzione sociale, lo studio della nascita di quella disuguaglianza, il suo smascheramento, la comprensione delle dinamiche di potere che l’hanno prodotta e permessa e riprodotta, in sintesi il processo di decostruzione.
Il potere agisce infatti nel terreno di un orgoglio identitario che certifichi l’eliminazione dell’altro, una eliminazione che può essere antropoemica, ovvero l’altro è esiliato, allontanato, ucciso, sterminato, oppure antropofagica, per cui l’altro è eliminato rendendolo simile a sé, bandendo la sua diversità sotto il vessillo di una necessaria integrazione (Bauman 1999).
La storia sembra riprodurre dinamiche identitarie di gruppo senza logica riflessiva, seguendo l’idea che l’eliminazione dell’altro sia funzionale alla sopravvivenza e allo splendore della propria identità/civiltà.
La modernità in quest’ottica considera l’annullamento fisico e culturale degli stranieri, degli altri in prospettiva culturale, etnica, morale, sociale e così via, un atto di distruzione creatrice, là dove distruggere il caos significa ricostruire un ordine.
Alla base di questo processo un tessuto sociale e politico pronto ad accoglierlo, quel che prepara gli uomini moderni al dominio nazionalista è l’estraneazione che da esperienza limite, diventa esperienza quotidiana delle masse (Arendt [1948]; 2009). L’essere e il sentirsi estraniati da una realtà che si scopre priva di senso comporta la perdita di una riflessività e di una relazionalità verso se stessi e gli altri.
Rappresentazione paradigmatica di questo percorso di celebrazione identitaria di potere l’ideologia nazista, che richiama l’ideale positivista di una storia come cammino verso il progresso sociale, come lotta di razze, trionfo del gruppo umano geneticamente migliore che assoggetta, in virtù di questo primato, le altre razze, culture, civiltà.
Il trionfo di questa narrazione politica, al termine di una devastante prima guerra mondiale con le dinamiche imperialiste, è reso possibile da alcune precise traiettorie sociali e strategie sistemiche.
La prima è senza dubbio l’individuazione di un capro espiatorio, qualcuno da incolpare per la situazione di crisi economica e sociale: gli altri, gli ebrei, infatti, assumono sia il volto del capitalismo inglese e francese che vuole ‘succhiare’ i soldi alla Germania per i crediti di guerra, sia il volto del comunista rivoluzionario che vuole distruggere il sistema.
Individuato l’Altro, si stabilisce che solo attraverso il suo annullamento possa essere ricostituito il progresso della società e riaffermato il suo splendore. In questo modo l’altro è annientato in virtù della sua alterità; fattore quest’ultimo che distingue gli storici massacri, dove l’altro era eliminato perché non aderiva ad un processo integrativo rinnegando la sua diversità (pensiamo al massacro degli indios da parte degli europei con la nascita della modernità), dal genocidio come paradigma di eliminazione dell’alterità in quanto tale.
Dopo aver creato il capro espiatorio, ovvero l’alterità da bandire, attraverso la logica della stigmatizzazione secondo la razza, il nazismo ha giustificato la propria ideologia che prendeva le mosse dalla teoria evoluzionista di Darwin per trasformarla in razzismo biologico; nella lotta storica tra le razze che sono disuguali per forza e per intelligenza e che si legano a caratteri etici e morali, sopravvivono le migliori, quella pura più di tutti merita di essere tutelata perché possa salvare il mondo. Fondamenti narrativi contenuti nel Mein Kamf scritto da Hilter in carcere nel 1923 e sedimentati storicamente dalle teorie del medico, antropologo, Lombroso che associava il comportamento sociale alle razze e non alle condizioni sociali.
Una volta motivato il processo di stigmatizzazione si manifesta la vera disuguaglianza sociale che precede la Shoah, ovvero la negazione all’accesso dei diritti ad una comunità identificata per le sue caratteristiche di razza. Si tratta di un percorso criminale progressivo che ha come apogeo la creazione dei laboratori per lo sterminio e l’annientamento della personalità, i campi di concentramento.
A permettere tutto questo, senza dubbio, il diffondersi della società di massa: l’individuo scompare sotto la guida del leader carismatico esaltato dai nuovi mezzi di comunicazione, risulta pertanto stordito e deresponsabilizzato, nella celebrazione politica e sociale di un’unica, semplice, spiegazione per tutti i mali che attanagliano il paese – l’individuazione del capro espiatorio e di un’unica soluzione – la sua eliminazione (Arend  [1964] 2019). In quest’ottica il sistema politico opera nella logica di una manomissione della memoria, attraverso una attenta azione di propaganda e di censura delle informazioni e nella logica del terrore, ricorrendo all’utilizzo continuativo della violenza nel ripremere ogni espressione di libertà, autonomia e dissenso.
Così gli  individui, massificati dal crollo di ogni classe sociale dovuto alla disoccupazione e alla miseria, disillusi dalla politica e dalla vita, si lasciano guidare dal capo carismatico e dalle informazioni che viaggiano attraverso i mezzi di comunicazione, senza realmente conoscere, senza andare dentro le pieghe dal male permesso e così facendo consentono al male di diffondersi come un fungo, in superficie e non in profondità, perché il male, come ci insegna la Arendt, non è mai radicale, ma solo estremo.
Così quando il 27 gennaio del 1945 le truppe dell’Armata Rossa aprirono le porte del campo di concentramento di Auschwitz , la verità nella sua tragica ed estrema brutalità apparve con prepotenza e con dolore, squarciando il velo della estraneazione e quando la narrazione comunista cedette il posto a quella liberale e venne istituito l’Onu apparve con dolore e con necessità la riedificazione di mondo nuovo, un mondo dove i crimini contro l’umanità potessero scomparire per sempre, dove l’identità entrasse in relazione con l’alterità per scoprire le sue potenzialità e rinunciare alle sue paure, sembrò impensabile un futuro di non condivisione, un futuro non costruito assieme nel dialogo.
A distanza di 76 anni da quel momento, il progetto di una cooperazione internazionale, nella logica di un rapporto costante tra identità e alterità – dove l’identità scopre se stessa nella sua molteplicità, rimane un obiettivo da realizzare, senza che ci siano effettive e concrete fasi di progettualità in tal senso. L’eliminazione antropoemica dell’altro è ancora presente, anche se condannata dal diritto internazionale come tutela necessaria tra relativismo culturale e dogmatismo, oscurata/naturalizzata dalla informazione globale ed è ancora presente l’eliminazione antropofagica dell’altro nelle logiche integrative occidentali che accettano l’immigrazione solo a patto che l’immigrato ceda la diversità, annientando le differenze linguistiche e culturali, al fine di acquisire l’identità nazionale del paese ospitante.
Ecco che alle soglie del giorno della memoria, l’antidoto al ripresentarsi di logiche distruttive ed esiziali per la sopravvivenza del pianeta, oltre ai meccanismi protettivi giuridici stabiliti dall’ONU e al lavoro di intermediazione delle agenzie internazionali non governative, potrebbe essere realmente partire dalle agenzie di socializzazione ed educare all’identità relazione e riflessiva che si coglie nel rapporto con gli altri, nell’analisi delle proprie e altrui narrative, nel considerare noi stessi parte integrante di una alterità che merita di essere scoperta e valorizzata.
Senza dubbio dobbiamo muoverci ad un doppio livello, se a livello macro infatti la necessità appare quella di promuovere lo sviluppo di uno spazio pubblico dialogico e razionale dove entrano i diversi racconti delle modernità, dove si mettono in discussione e si promuovono soluzioni globali; a livello micro sembra invece più che mai fondamentale un percorso di educazione identitaria che faccia dell’intelligenza emotiva, della conoscenza del sé, della messa in scena narrativa delle proprie immagini sociali, nella consapevolezza dell’importanza della propria e della altrui alterità, il volano di una nuova società aperta e dialogica.

Concludiamo  questo articolo con il rimando, attraverso tre link, ad alcuni materiali che possono incentivare una riflessione sulle tematiche affrontate, si tratta nello specifico di una esemplificativa poesia di Octavio Paz[1] sul ruolo dell’amore nella scoperta della propria identità e alterità, di una canzone di Nicolò Fabi Io sono l’altro, che coglie, nella sua semplicità, i tratti di questo rapporto tra sé e altro da sé, con il conseguente bisogno di dialogo conoscitivo e di apertura verso il mondo e alcuni consigli di lettura per esaminare il tema dell’eliminazione dell’altro, con riferimento specifico alla giornata della memoria (dai classici della letteratura alle nuove uscite).

Amore dopo amore di Octavio Paz

Io sono l’altro di Nicolò Fabi

Consigli di lettura

 

Riferimenti bibliografici

Arend [1948] (2009), Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino.
Arend [1964] (2019), La banalità del male, Feltrinelli, Milano.
Z.Bauman (1999), La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna.

[1] Poeta e scrittore messicano. Premio Nobel della letteratura nel 1990.