In viaggio con la biblioteca, 2a puntata

Se la Spagna l’ultima volta non ci è sembrata abbastanza esotica, basta cambiare.

La nostra biblioteca, spostandoci appena un po’ a sinistra nelle nostre scansie, titilla lo sguardo del viaggiatore sospiroso con un titolo accattivante ed evocativo, “Africa nera“, libro di John Gunther pubblicato da Garzanti in una collana dal sobrio nome di “Serie Saper Tutto“. Il sottotitolo recita: “Unione Sudafricana-Africa sudoccidentale-Africa Meridionale Britannica- Rhodesia e Niassa-Africa Portoghese- Africa Orientale Britannica, Congo-Africa Equatoriale“.

 

1. IL CONTINENTE NERO S’ILLUMINA

L’Africa, sotto certi aspetti, non è affatto un continente nero; è sfolgorante di luce. molte sue parti sono luminose, anzi addirittura incandescenti. Essa presenta lo spettacolo di milioni e milioni di persone balzati quasi dall’oggi al domani dai primitivi costumi delle tribù ad un’impaziente avidità di forme di vita e di tecniche moderne. L’Africa è simile ad una esplosiva massa di lievito. Si sta sbarazzando con enorme rapidità dei ceppi politici dell’Occidente; ma i suoi fermenti non sono soltanto politici ed economici, bensì sociali, culturali, religiosi. Sta passando d’un tratto dalla magia nera alla civiltà bianca, sebbene moltissimi africani credano tuttora nella prima. Esige l’educazione, la tecnica, il livello di vita di vita dei bianchi, nell’atto stesso che ne respinge il dominio e lo sfruttamento.

Per noi turisti malinconici, questa presentazione è promettente ed allettante. Ma suona anche un po’, uhm, curiosa. Passare d’un tratto “dalla magia nera alla civiltà bianca”? Suona come qualcosa che ben difficilmente troveremmo oggi su un libro di geografia. E’ proprio così? Cosa penserebbe di una presentazione del genere un antropologo come Claude Levy-Strauss? Si possono giudicare così dall’alto in basso le civiltà straniere? Forse sarebbe il caso di spippolare un po’ sul catalogo online di Bibliolandia e vedere cosa viene fuori. Ma per ora affidiamoci a Gunther e vediamo cosa altro ha da raccontarci sull'”Africa oggi” (p. 12).

L’Africa oggi. Da alcuni anni il movimento per l’indipendenza ha assunto nel continente nero un ritmo accelerato. Entro il 1960 -a parte l’Unione Sudafricana che, pur essendo indipendente, non è certo governata da africani – gli Stati africani indipendenti saranno almeno 24: Alto Volta, Camerun, Repubblica Centroafricana, Ciad, Congo (ex belga), Congo (ex francese), Costa d’Avorio, Dahomey, Egitto, Etiopia, Gabon, Ghana, Guinea, Liberia, Libia, Federazione del Mali (Senegal e Sudan già francese), Marocco, Mauritania, Niger, Nigeria, Somalia, Sudan, Togo, Tunisia.
Come si vede, si tratta della maggior parte dell’Africa, sia come superficie che come popolazione; nè per i territori ancora sotto regime coloniale il processo che conduce all’indipendenza potrà essere ancor molto differito. Mentre negli Stati dominati dalle minoranze bianche (l’Unione Sudafricana e la Federazione delle Rhodesie e del Niassa) la tensione politica e razziale cresce continuamente, minacciando di far saltare da un momento all’altro un equilibrio ormai del tutto instabile. Ciò tuttavia, non significa che l’opera dei bianchi sia finita in Africa. Essa continuerà, anzi, probabilmente per molto tempo, se sarà condotta come conviene. Sarebbe un peccato che fosse finita, perchè vi sono ancora grandissime cose da fare. E l’Africa ha bisogno di sviluppo e assistenza.
Il problema comunista. Una parola, infine, sul comunismo. Molti nazionalisti africani da me incontrati assicuravano, sinceramente o no, di aborrire i comunisti e il loro programma; ma questo atteggiamento può non essere duraturo. Vi sono gà zone in cui i comunisti sono quasi abbastanza forti per prender le redini del movimento nazionalista. Se ciò dovesse accadere, sarebbe una tragedia non soltanto per gli africani interessati, ma per l’intero mondo democratico.
Del resto, molti sono gli “elementi” favorevoli al progresso del comunismo:

1) L’ignoranza. L’Africa è un continente in vilenta transizione, e perciò doppiamente vulnerabile. La popolazione non è abbastanza istruita o è intellettualmente troppo mescolata per comprendere il vero significato del comunismo. Un punto sussidiario è che diverse cose che noi occidentali non possiamo perdonare al comunismo, per esempio la soppressione delle libertà civili, hanno scarso interesse per gli africani, che non hanno mai avuto molta libertà da perdere.

2)Povertà. E’ ovvio che un continente povero come l’Africa, con gente miserabilmente alloggiata, insufficientemente nutrita, e quasi priva di servizi sanitari e simili cose, offre un ottimo terreno all’infiltrazione comunista. La povertà non basta da sola a far piombare un paese nel comunismo, altrimenti l’Irlanda, l’Afghanistan e l’Ecuador, tra gli altri, sarebbero divenuti comnisti da un pezzo. Ma la povertà senza possibilità di miglioramento, senza pseranza, può alimentare quasi ogni sorta di fermenti, che i comunisti non esiteranno a sfruttare.

3) Gli africani istruiti reclamano soprattutto tre cose. Libertà dal dominio coloniale, libertà dallo sfruttamento conomico, e libertà dalla separazione razziale. E tutto questo, come per combinazione, è esattamente quello che i comunisti dicono di propugnare.

4) Abusi degli attuali governi, siano essi bianchi o neri. Per esempio, il fatto che la Liberia non abbia che pochi chilometri di strada selciata può, a lungo andare, contirbuire di più a diffondere il comunismo che tutti gli opuscoli di propaganda stampati da Mosca. L’Angola portoghese è analfabeta al 97 per cento. Nulla potrebbe servir meglio ai fini del comunismo. Nell’Unione Sudafricana è la repressione politica, più che ogni altro fattore, quella che trasforma in comunisti uomini ridotti alla disperazione.

5) Una diffusa persuasione degli africani, specialmente quelli in giovane età, che la Russia e la Cina comunista stiano facendo un buon lavoro, creino un’economia “benefica”, e divengano ogni giorno più forti. In altre parole, alcuni africani credono i comunisti vinceranno la competizione per il dominio del mondo, e vogliono mettersi dalla parte del vincitore.

6) La Russia è nemica della Gran Bretagna e della Francia, che sono le nemiche dell’Africa nazionalista, e deve quindi essere considerata un’amica.

Possiamo, d’altra parte, enumerare come segue le forze che tendono invece ad opporsi al progresso del comunismo:

1) La Russia non è geograficamente contigua, e il comunismo è ancora un concetto remoto per la maggior parte degli africani.

2) La terra, in gran parte dell’Africa, è detenuta dalle tribù per conto del popolo, oppure è divisa tra piccoli coltivatori individuali. Vi sono comparativamente pochi grandi proprietari (fatta eccezione per le regioni di colonizzazione bianca) che opprimono una popolazione rurale priva di terra. Vi sono pochi latifondi da frazionare e da impiegare come esca per l’agitazione comunista. Inoltre il proletariato industriale è scarso e difficile a raggiungersi. Per di più milioni di africani hanno una società “comunitaria”, e il comunismo non promette dunque loro nulla di nuovo.

3) Fattori religiosi. La religione maomettana, nelle vaste regioni in cui predomina, è un forte antidoto contro il comunismo, quantunque musulmani isolati possano essere comunisti.

4) Gli africani istruiti, che si stanno appena liberando da un tipo di imperialismo, non hanno voglia di cadere in preda a un altro. Parecchi hanno una vivissima antipatia per il comunismo, per il semplice fatto che si tratta di un movimento bianco. (Il fatto che la Cina, paese non bianco, sia diventata comunista, potrebbe però assai presto modificare queste prevenzioni.)

5) Soprattutto, educazione e democrazia politica. La migliore garanzia contro il comunismo è l’insediamento di governi nazionali stabili e progressivi, se possibile con forti legami di amicizia verso l’Europa. Il modo più ragionevole di scoraggiare il comunismo in Arica è di offrire possibilità politiche alle popolazioni indigene. Se si contrastano le loro legittime aspirazioni alla libertà, i comunisti ne approfitteranno per suscitare torbidi.

Interessantissimo! Ma se gli Stati che stanno per diventare indipendenti sono addirittura 24, prima della seconda guerra mondiale quanti erano gli Stati indipendenti? Qual era la percentuale di Africa sotto regime coloniale? Sarebbe interessante approfondirlo.

Ma poi come è andato avanti il rapporto con i paesi europei? E’ venuta fuori questa amicizia con i popoli africani? Anche se non si tratta propriamente di Africa nera, sarebbe interessante capire come la Francia abbia reagito alla volontà di indipendenza dell’Algeria, ad esempio. O in che modo abbia giovato o nuociuto ai rapporti con le ex-colonie africane uno strumento come il franco centrafricano (Franco CFA). Cosa direbbe oggi il politico congolese Patrick Lumumba dell’amicizia “dei bianchi”? Difficile dirlo, perché si oppose all’intervento del Belgio nella neonata repubblica del Congo e venne assassinato nell’agosto del 1960. Il libro di Gunther arriva nella sua cronologia relativa al Congo al 14 luglio 1960, registrando così gli eventi che portarono alla morte di Lumumba, ma senza nominarlo.

In ogni caso, bisogna notare che viene nominata spesso quell’URSS (anche se Gunther preferisce dire Russia) da cui abbiamo iniziato le nostre peregrinazioni mentali. Si parla addirittura di “dominio del mondo”. E’ qualcosa di realistico o il nostro amico Gunther ha le traveggole? Era comune a quei tempi discutere su chi avrebbe conquistato la supremazia sul mondo intero? E come è andata, poi?
Il comunismo e il nazionalismo africani sono effettivamente esistiti oppure no? Anche se, di nuovo, non si tratta di Africa nera, bisognerebbe vedere di scoprire qualcosa di più su Nasser e Sadat, oppure anche su Thomas Sankara.

Ma passiamo senz’altro ad uno ad uno dei paesi più importanti e famosi dell'”Africa nera”, l’Unione Sudafricana. Vediamo cosa ha da dirci Gunther al riguardo dopo aver raccontato che i primi governi Sudafricani arrivati al potere dopo l’uscita dall’impero Britannico erano di chiare simpatie naziste, tanto che a stento l’Unione Sudafricana scelse di schierarsi per l’ex-madrepatria britannica durante la seconda guerra mondiale:

Le elezioni del 1948 furono le prime combattute nel Sud-Africa principalmente sulla questione razziale. Malan [primo ministro] fece dei negri lo stesso uso che Hitler aveva fatto degli ebrei. Sebbene in minoranza nel paese, egli si assicurò la maggioranza in parlamento grazie al sistema locale per cui si aumenta la rappresentanza delle aree rurali meno popolate, o plattenland. Si formò così il primo governo tutto di afrikaner [bianchi di origine olandese, stanziatisi in Sudafrica al tempo della colonizzazione olandese, cui seguì quella inglese]. Era infatti la prima volta dal 1910 che nessun sudafricano d’origine inglese faceva parte del gabinetto.
Nelle elezioni successive, del 1953, i nazionalisti, pur senza conquistare ancora la maggioranza nel paese, si impadronirono di entrambi i rami del parlamento, il che aprì la via a un vero e proprio totalitarismo, eliminando la possibilità di una seria opposizione parlamentare. L’analogia con la Germania del 1932-33 è ancora una volta impressionante. Tra i diversi attori che contribuirono al trionfo di Malan vi fu la sollevazione mau mau nel Kenya. I nazionalisti andavano urlando freneticamente che il movimento mau mau si sarebbe propagato al Sud-Africa se la supremazia bianca non vi fosse stata mantenuta, e che soltanto loro erano in grado di mantenerla. Comunque il dottor Malan vinse. E si aprirono le cateratte. […]
Con tutta una serie di leggi e provvedimenti amministrativi […] la popolazione africana e di colore venne inchiodata alla sua condizione di inferiorità, respinta nel suo isolamento, impedita nei suoi tentativi di inserirsi concretamente nella vita politica, amministrativa, economica del paese.
Le tendenze politiche generali nell’Unione sono state confermate alle elezioni del 1958, alle quali per la prima volta hanno partecipato i soli cittadini bianchi (gli africani erano stati tolti dalle liste comuni nel 1936 e i coloured nel 1957), ed in cui i nazionalisti migliorarono ulteriormente le loro posizioni conquistando 103 dei 156 seggi in palio. Era chiara dimostrazione che il corpo elettorale, nella sua maggioranza, accettava come articolo di fede la politica di segregazione razziale e di difesa di posizioni politiche ed economiche privilegiate.

Una situazione difficile. – L’esasperazione della politica di apartheid ha suscitato negli ultimi anni reazioni interne e internazionali sempre più vaste. Il governo dell’Unione e le Nazioni Unite sono da tempo ai ferri corti, per l’aperta deplorazione che il maggiore consesso internazionale ha pronunciato a più riprese per la politica razziale del Sud-Africa. Ma il Sud-Africa è sempre più isolato anche nell’ambito del Commonwealth, come è stato provato di recente, non solo dalla disapprovazione dimostrata con dura franchezza dal primo ministro inglese Macmillan nel famoso discorso del 3 febbraio 1960, ma anche dalle prese disposizione, più o meno esplicite, degli altri paesi dell’associazione contro la politica di segregazione.
All’interno la situazione è quanto mai difficile. Fino a poco tempo fa, il Congresso Nazionale Africano (l’organizzazione sostanzialmente moderata che raccoglie l’opposizione indigena) aveva cercato di combattere la politica del governo con i metodi gandhiani della non violenza. Madi recente ha acquistato grande sviluppo il più estremista Movimento Panafricano, che si batte per “L’Africa agli africani”, e conduce una opposizione sempre più rigida ed esasperata.
La situazione, così, è peggiore di giorno in giorno. Ogni scintilla può essere pericolosa in una atmosfera terribilmente esplosiva, come dimostrano i massacri del marzo 1960, e gli incidenti che, sia pur non così gravi, continuano, ad intervalli, a ripetersi in tutto l paese.
Quando noi visitammo il Sud-Africa, alcuni anni fa, le libertà civili per la popolazione bianca non avevano subìto restrizioni. I professori bianchi potevano dire quasi tutto ciò che volevano a Witwatersrand e in altre università, un oratore poteva attaccare il governo davanti ad ascoltatori bianchi con la massima libertà, e con la stampa inglese non si era ancora vista mettere la museruola. I comunisti o le persone sospettate, anche senza prova, di esserlo erano trattati senza misericordia, ma l’espressione di altre opinioni politiche era ancora più o meno libera.
In seguito, però, le cose hanno assunto, sotto questo aspetto, una pessima piega. Dopo l’avvento al potere di Srijdom, e poi di Verwoerd, quasi tutto nell’Unione è stato rudemente imbrigliato e asservito; la stampa di lingua inglese, sebbene non ufficialmente sottoposta a censura, è divenuta cauta, e i cittadini di Johannesburg cominciano a domandarsi se la corrispondenza sia ancora inviolata. Noti scienziati sudafricani si sono visti proibire la partecipazione a congressi d’antropologia all’estero. E finalmente, dopo gli incidenti dei primi mesi del 1960, anche cittadini bianchi di tendenza liberale sono stati arrestati in altro modo colpiti dall’azione di repressione per essersi schierati contro la politica del governo e in favore dei diritti degli indigeni.

Questo è chiaramente un libro vecchiotto, più per un tabaccoso frequentatore di vetuste biblioteche che per il vispo e mobile viaggiatore del XXI (pre-pandemia). Non si nomina da nessuna parte Nelson Mandela. Ma che ruolo ha avuto Mandela nell’evoluzione dell’apartheid?

Nota a latere: vale la pena di citare qui l’opera di un architetto italiano, Fabrizio Carola (si legge Caròla) che davvero ha guardato all’architettura africana senza supponenza, ed ha elaborato dei progetti architettonici rispettosissimi delle tradizioni locali, con effetti molto suggestivi. Ne parlano questo articolo di Architettura Sostenibile e questo di AfricaRivista, ma possiamo sentire lui stesso che parla dei suoi progetti in questo video:

A titolo d’esempio, questo è il corridoio di un ospedale da lui progettato a Kaedì, Mauritania:

In ogni caso, cerchiamo di variare. Se l’emisfero australe ci ha stancato, torniamo a quello boreale. E andiamo a trovare una città che di storia negli ultimi settant’anni ne ha prodotta e vissuta parecchia. Le nostre polverose scansie ora ci portano, attraverso il libro di Raymond Carter “Le 19 europe“, nientepopodimeno che a Berlino.

BERLINO

La situazione di Berlino è una delle fantastiche anomalie della nostra epoca.[…]Il contrasto tra Berlino Ovest e Berlino Est è uno dgli spettacoli classici del nostro straziato continente. Il taglio è al tempo stesso radicale e invisibile. I servizi pubblici, gli autobus, le comunicazioni telefoniche, le polizie, le monete, i giornali, ecc., si fermano a questa frontiera urbana di due mondi, ma, all’infuori di un lieve controllo economico, il suo valico non è sottoposto ad alcuna formalità. Decine di migliaia di berlinesi dell’Est lavorano a Berlino Ovesta e la metropolitana e lo Stadtbahn uniscono ancora le due metà della città. Questa facilità di passare da una parte all’altra rende i contrasti più evidenti. Dalle strade ricostruite e affollate di gente di Berlino Ovest, si passa alle strade deserte e piene di rovine di Berlino Est come se si tornasse indietro di dieci anni nel dopoguerra. I russi si sono fatti costruire un’Ambasciata babilonese lungo l’Unter den Linden; hanno fatto sistemare due maginiiche necropoli per i loro soldati morti nella battaglia di Berlino, ma la ricostruzione della Berlino dei berlinesi non era neppure stata abbozzata prima della messa in cantiere della Stalin-Allee. I 4000 alloggi di quest’ultima hanno fatto al comunismo più propaganda dei 20.000 alloggi che Berlino Ovest costruisce ogni anno, ma l’apparenza non illude. I 403 chilometri quadrati del settore orientale restano in rovina. Con il passare del tempo, certi tratti della città si sono letteralmente cancellati.
La condizione degli uomini corrisponde a quella dei luoghi. Ho veduto tutte le tappe delle due Berlino, dalle rovine allucinanti del 1945. La miseria pallida e trepida dei dieci primi anni si è dissipata a Berlino Est, ma le tessere di razionamento esistevano ancora alla fine del 1957 e il cartello Keine Lebensmittel [niente viveri n.d.P.]appariva regolarmente nelle vetrine dei negozi alimentari. Nel ’58 e nel ’59, il paragone tra i prezzi rivelava ancora l’opposizione di due società dalle strutture economiche dissimili. le derrate, i prodotti, i servizi più elementari erano meno cari all’Est; le derrate, i prodotti, i servizi più raffinati erano non meno, ma molto meno cari ad Ovest. Una libbra di patate costava 9 pfennig meno dalla parte comnista, ma una libbra di cotolette costava marchi 3,30 o più. Il caffè, il cacao e il cioccolato erano quattro volte più cari a Est. Le scarpe che difficilmente si potevano trovare per 67 marchi al paio all’Alexanderplatz erano offerte in gran quantità per 27 marchi sul Kurfürstendamm. Quattordici anni dopo l’armistizio, il comumismo dava ai berlinesi dell’Est ciò che un uomo abituato alla miseria può chiamare l’indispensabile, ma la tristezza e la povertà regnavano ancora, e non era veramente possibile immaginare che la Friederichstrasse fosse una delle strade illustri d’Europa, un canale di ricchezza e di vita.
La rivolta operaia di Berlino Est, il 17 giugno 1953, fu il primo scricchiolio del comunismo nei paesi satelliti d’Europa. Stalin era morto da tre mesi. Malenkov distribuiva doni per festeggiare il suo avvento al potere. I dirigenti del comunismo tedesco, Ulbricht, capo del partito, Grotewohl, capo del governo, cercarono di opporsi alle misure liberali prescritte da Mosca, ma furono biasimati e costretti ad inchinarsi. Il destino dei tiranni è sempre lo stesso: nessuna concessione può salvarli, e tutte le concessioni concorronoa perderli perché accrescono l’audacia degli asserviti. Tre giorni dopo l’addolcimento del regime, gli operai che lavorano alla Stalin-Allee si mettevano in sciopero -delitto di Stato- e invadevano il centro di Berlino chiedendo burro, elezioni libere, la partenza delle truppe sovietiche e la riunificazione della Germania. Folle intere sorsero dal lastrico. La Volkspolizei [“polizia del popolo”, cioé la polizia della DDR] si volatilizzò. Il governo detto popolare sarebbe stato spazzato via in cinque minuti se i carri armati russi non fossero subito intervenuti -distruggendo la leggenda di un potere teedsco indipendente, basato sulla fedeltà delle masse. Si vide a Berlino ciò che si doveva rivedere a Budapest tre anni dopo: operai che attaccavano a sassate i T34 [carri armati, n.d.P.]

Fuggiaschi a migliaia

La rivolta del 1953 fu una scossa nervosa. Ma esiste una protesta permanente contro la tirannia e la miseria alle quali il comunismo asservisce metà della Germania: è la fuga quotidiana di centinaia di tedeschi che cercano la liberazione in un regime che è loro prescritto di odiare.
Le cifre annuali di tale esodo tracciano la curva della febbre politica tedesca: 1949-172.000; 1950-198.000; 1951-166.000; 1952-182.000; 1953-331.000; 1954-184.000; 1955-253.000; 1956-279.000;1957-262.000; 1958-204.000;1959-144.000.[…]
Berlino è il portone di queste defezioni. Le recinzioni elettrificate, i campi arati, i cani poliziotti della Bassa Sassonia e della Baviera rendono difficile il superamento della linea di demarcazione e la rarefazione dei permessi di viaggio riduce a ben poco il numero dei tedeschi dell’Est che partano legalmente, ma senza desiderio di ritorno. Esistono, ad occidente della cortina, due campi di accoglimento, a Giessen e a Ulzen, ma non vedono passare, fra tutti e due, neppure metà dei fuggiaschi che si presentano al campo di Marienfeld, nel settore britannico di Berlino.[…]
Le autorità della D.D.R. hanno dapprima affermato che i fuggiaschi appartenevano alle classi capitalistiche espropriate, junkers e padroni. Hanno dichiarato in seguito che si trattava di kulaki, proprietari terrieri reazionari, incapaci di adattarsi ad una agricoltura socialista. Queste spiegazioni sono divenute insostenibili. Circa il 65-70% degli uomini che passano nel campo di Marienfelde sono operai. Molti di quelli che non sono operai sono intellettuali. […]
Questa perdita di materiale umano ha gravi conseguenze nella Germania comunista. Essa si va spopolando. Contava 18.388.000 abitanti nel 1950; non ne ritrovava più che 17.385.000 nel 1959. L’età media della popolazione aumenta. La percentuale dei quadri decresce. Il governo di Bonn [cioé della Germania Occidentale, n.d.P.] teme anch’esso che il vuoto creato dalle partenze sia riempito da polacchi, da russi e persino da cinesi. Il Governo di Pankov [il governo della Germania Orientale], costretto a difficili norme dalla pianificazione sovietica, si trova dinanzi alla costante disorganizzazione delle sue squadre di produzione a causa delle incessanti diserzioni. Si trova dinanzi al plebiscito quotidiano della fuga che fa a pezzi la sua legittimità.
Agli ingressi della capitale, alle uscite che portano verso l’Occidente, vegliano poliziotti comnisti. Chiunque porti un fagotto, o anche un vestito troppo nuovo, è considerato sospetto. Chiunque confessa di aver tentato di abbandonare la Repubblica democratica incorre in due anni di prigione. Tuttavia, l’esodo prosegue. Ci vorrebbe, per interromperlo, che la D.D.R. murasse quell’ottantina di strade attraverso le quali le due Berlino comunicano, o, almeno che togliesse a Berlino il suo carattere di piattaforma girevole per tutta la Germania dell’Est. Il cittadino di Stralsund prende un biglietto per Weimar, andata e ritorno per non destare sospetti e, invece di cambiare treno a Berlino, prende la metropolitana per la libertà.

Nuova battaglia di Berlino

Non è detto che un giorno o l’altro non si vedrà la cortina di ferro divenire ermetica nella stessa Berlino e i settori occidentali strettamente compressi tra le recinzioni del centro e la rete di filo spinato della periferia.

Non si può dire che Carter abbia cercato di rendere la nostra passeggiata per Berlino Est molto leggera e piacevole. Che idea bizzarra, chiudere una città dentro un muro! Ma è davvero concepibile una cosa del genere? Per curiosità ho cercato un paio di video su Youtube, e li lascio qui.  Il primo è in tedesco, ma basta guardare le immagini, è più che sufficiente:

Foto: claudia0spencer