Voci del verbo andare

Articolo di Anna Taglioli

Si è celebrata il 21 maggio la Giornata mondiale per la diversità culturale, per il dialogo e lo sviluppo, proclamata dall’Assemblea generale delle Nazioni Uniti nel 2002 ad un anno dall’adozione da parte dell’UNESCO della Dichiarazione universale sulla diversità culturale e antecedente di tre anni alla Convenzione UNESCO per la protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali, tesa ad integrare il settore culturale nel quadro delle politiche di sviluppo sostenibile e promuovere i diritti umani e le libertà fondamentali.
Per la prima volta fu introdotto nell’ordinamento internazionale il principio della cultura come fonte di scambio e di innovazione e della diversità culturale come fonte di sviluppo per le generazioni future. Oggi, in un clima sociale sempre più complesso e difficile, economicamente e socialmente, promuovere il dialogo culturale e confermare la ricchezza della diversità come un valore da tutelare, sono una necessità imprescindibile.
Il superamento delle teorie essenzialiste che volevano l’identità fissa e stabile e la diversità una minaccia alla propria sicurezza identitaria devono definitivamente lasciare il posto alla consapevolezza di una identità relazionale che fa della diversità un valore e un volano di crescita e di riflessività. Scoperto il carattere possibilistico del sé, la diversità non può che diventare un motore di sperimentazione, di dialogo, di relazione, di crescita, nell’incontro con l’altro da me comprendo degli aspetti del mio modo di percepire e di agire nel mondo che non avevo valutato, mi confronto, mi modifico, mi apro ad una dimensione cooperativa, funzionale alla costruzione di una società collaborativa e pacifica.

Per riflettere assieme sull’importanza della diversità culturale vi propongo la lettura di un libro, recentemente acquistato dalla nostra biblioteca, Voci del verbo andare, un libro che appare come un antidoto all’indifferenza e alla dimensione egotica in cui sembriamo racchiuderci, a quell’ incastellamento culturale che ci toglie umanità, capacità e futuro.
Jenny Erpenbeck scrive un romanzo che somiglia in alcuni passaggi ad un saggio e ad una cronaca giornalistica, lo scrive con attenzione e con coraggio, differenziando i personaggi attraverso i loro comportamenti e le loro storie. Narra dell’odissea dei profughi arrivati a Berlino dall’Africa subsahariana, attraverso il racconto di un professore di filologia classica, Richard, un berlinese della vecchia Berlino est andato in pensione da poco tempo e rimasto vedovo, spaesato dalla Germania unificata e interessato alle vite di questi uomini più spaesati di lui, ai quali, si avvicina con umanità, ascoltandoli, interrogandoli, aiutandoli, modificandosi.
Così un giorno, a Oranienplatz, Richard incontra un gruppo di profughi che manifesta per poter vivere e lavorare – fil rouge dell’incontro il tempo sospeso di quelle vite che incontrano il tempo perduto e quello non vissuto del professore, si tratta di due traiettorie distinte ma in viaggio, che non riescono a trovare posa, approdo, dimensione, corrispondenza. Con il pretesto di un progetto di ricerca Richard inizia ad uscire da quella sospensione e ad incontrare quelle vite in tensione: conosce Awad che ha visto uccidere suo padre nel tragitto dal Ghana alla Libia e che è stato messo in un camion con cui  ha attraversato la morte, la disperazione e la guerra, Osarobo che impara per la prima volta a suonare il pianoforte, Raschid che è sopravvissuto in mare anche se non sapeva nuotare, attaccandosi ad un cavo della braca capovolta e Apollo con la sua vita da schiavo nel deserto, in solitudine.
Storie raccolte nella Berlino del 2013 ma che hanno tanti tempi e tanti luoghi, che sembrano parlarci di vite appese di domani, di chi pare attraversare una soglia di bronzo rimanendoci in mezzo. Un romanzo su chi si rifugia e chi accoglie, sull’attesa e sul futuro, sulla speranza di una vita in cui l’ascolto, la cura e la relazione possono costruire le fondamenta di una società dove diversità e uguaglianza siano un binomio imprescindibile, dove non sia più possibile fingere che non ci sia indifferenza, ingiustizia e necessità di superarle, movimento, cambiamento, paura, possibilità.

Una volta lei è rimasta incinta, dice Richard, ma per me allora era troppo presto. Non avevo nemmeno finito gli studi. L’ho convita a sbarazzarsi del bambino.
Capisco, dice Zair.
Era in quel momento che non lo volevo il bambino.
Capisco.
Ma allora non era ancora legale. E’ andata da una di quelle donne. Glielo ha fatto sul tavolo della cucina. Io ho aspettato sotto il cortile.
Richard ricorda bene il cortile sul retro, dove aveva aspettato. 30 gradi, l’ombra torrida, in cui stava lui, accanto ai bidoni della spazzatura in lamiera con i coperchi sformati.
Quando usci, dice Richard, per poco non cadde, dovetti sostenerla, e s’era fatta, di colpo, così pesante. E’ durato finché non siamo arrivati alla fermata della S-Bahn. E solo quando siamo stati sulla S-Bahn mi sono accorto che le colava il sangue in mezzo alle gambe, In quel momento mi sono vergognato per lei. Dovevo occuparmi di lei, ma lo trovavo terribilmente imbarazzante.
Richard scuote la testa, quasi non riuscisse lui stesso a capacitarsi di quello che sta dicendo.
Perché ti vergognavi per tua moglie? Domanda Ali.
Credo di aver avuto paura.
Paura di che cosa?
Che morisse. Si, dice Richard, in quel momento l’ho odiata perché poteva morire.
Posso capirlo, dice Detlef.
Proprio allora credo di aver compreso, dice Richard, che quanto riesco a sostenere è solo la superficie di tutto quanto non riesco a sostenere.
Come in mare? Domanda Khalil.
Si, in linea di principio, proprio come in mare.