Sì, viaggiare…con la biblioteca!

Sì, viaggiare…evitando le buche più dure!

Siamo a febbraio e purtroppo la morsa dell’epidemia è ancora piuttosto salda. In attesa di essere vaccinati, una delle poche via di fuga rimaste per tornare al grande mondo esterno si apre tra gli scaffali della biblioteca. La nostra valente biblioteca, infatti, ha anche una ricca e scelta selezione di testi di argomento geografico. Quale migliore occasione di questa per viaggiare sulle ali dei libri?

Sulla base dei testi a nostra disposizione è possibile realizzare un viaggio che, chissà, forse un giorno non troppo lontano potremmo anche, quali novelli Phileas Fogg, moderni Marco Polo o tecnologici Ibn Battuta, realizzare per davvero.

Ma verso quali mete esotiche e quali meravigliose città ci indirizza il catalogo della nostra biblioteca? La scelta è vasta e qui mi limito a mostrare al nostro pubblico un bouquet di destinazioni da sogno. Ecco qua:

Ovviamente, disponiamo anche di validi ausilî per evitare di smarrirci, sia pure soltanto con il pensiero, nelle vaste contrade che vorremmo esplorare. In particolare, ci viene incontro nientemeno che l’Atlante Turistico dell’Europa del Touring Club, ed. 1983, Centro e Sud (Est, Ovest e Nord non pervenuti, purtroppo).

Ma non perdiamoci in chiacchiere e vediamo di cominciare subito! Cominciamo la nostra esplorazione con una delle mete più ambite ma ancora misteriosa: l’URSS. Poi, a mo’ di contraltare, la Spagna!

Cediamo subito la parola ad un reporter d’eccezione, Enzo Biagi, che per conto della Rizzoli ha scritto un’intera collana di diari di viaggio, intitolata “La geografia di Biagi“:

“Nell’Urss si contano ripeto, duecentocinquanta milioni di abitanti, e ogni anno ne arrivano altri quattro. C’è posto, credo, per un vasto campionario di tipi, ecerti collaudati modelli del passato saranno sempre presenti. Come ci saranno sempre problemi per il cittadino comune, per il semplice tovarišč. Diceva Cechov: “La Russia è un paese così grande, che non c’è posto per l piccolo uomo”.

Ed è proprio di lui che voglio parlarvi. Diamogli anche un nome: Ivan Ivanovic.

Nell’elenco del telefono di Mosca, appena ristampato (l’ultima edizione era del 1958), occupa trentatré pagine. E’ il signor Rossi della piazza. C’è chi lo descrive paziente, spontaneo, sentimentale, con una tendenza secolare a sottomettersi all’autorità. C’è anche chi si diverte a scherzare sui suoi guai. “Lo sai” dicono” che Adamo ed Eva avevano la nazionalità russa?” “Perché?” “Erano nudi e con una sola mela da mangiare e gli dicevano anche che si trovavano in paradiso”.

No, non è così. Cerchiamo, prima di tutto, di collocarlo el suo paesaggio: che è fatto di regole, di simboli, di incitiamenti, di una morale che è assai diversa da quella degli “altri”.

Infatti l'”idea” vi segue anche a tavola. Date uno sguardo al menù: c’è il filetto alla Gagarin, (un tributo a Gagarin e compagni); c’è la Kotleta Vostok (battezzata così dal nome di una nave spaziale), pollo fritto pesantemente nel burro con patate fritte fredde; c’è il formaggio sovietico e, naturalmente, c’è il caviale rosso.

Fermatevi un momento davanti all’edicola dell’albergo: se siete spagnolo, vi attende un opuscolo sul comunismo e la libertà personale; per gli inglesi vi è un saggetto sulla nuova società costruita da Lenin; forse il turista francese può sperare in una lettura un po’ più drammatica: Il Mercato Comune complotto dei monopoli”.

La propaganda non vi risparmia le statue dei metalmeccanici felici, dei minatori sorridenti, dei fieri ragazzi che ostentano i libri scolastici.

Alla televisione, oltre alle consuete esaltazioni del lavoro collettivo, hanno trasmesso un programma che dimostra l’intolleranza degli americani verso la gente di colore: si vedeva l’enorme limousine di un negro che, spinta da turbolenti razzisti, finiva in un canale.

Non sempre, si capisce, il bersaglio proposto dagli attivisti viene raggiunto: risulta che la drammatica scena è stata così commentata da molti spettatori: “Però, quel poveraccio, che automobile aveva!”.

Poi, le sorprese della piccola cronaca: non esiste a Mosca, nei locali pubblici, la guida telefonica; la più recente ristampa è di cinquantamila esemplari: numero del Soviet Supremo 295-50-51; ci sono in tutto, sulle strade della città, otto distributori di carburante; la “milizia” (nessuno dice “le guardie” o la “polizia”) fa la multa anche a chi va in giro con la macchina sporca.

La fabbrica Mikojan produce gelati che sono buonissimi, perché qui non esistono sofisticazioni, nessuno ha interesse sostituire alle uova le polverine per ottenere un maggior guadagno e poi, mi ha detto un maligno, data la scarsezza di prodotti chimici, costerebbero di più; la fabbrica “123” produce cavalli da corsa.

Ci sono ancora, sugli ippodromi, stuoli di scommettitori che il rigore sovietico deplora, ma che continuano imperterriti a puntare. Come tra gli avidi capitalisti.

Mi dicono che nel centro, circolano anche signorine disposte a cedere la loro compagnia: salgono sulle auto pubbliche e girano adagio adagio finché non incontrano qualche solitario. Il tassì sostituisce le camere. Ogni tanto suona il mio telefono e una voce femminile mi rivolge lunghe allocuzioni in russo che io ascolto in rassegnato e impotente silenzio. Ricordo le impressioni del primo giorno: la benzina che odora di cipolla, la lista del ristorante firmata da “tre responsabili”, i pochi uomini con la cravatta.

Se per caso l’elegante testimonianza di Enzo Biagi vi sembra troppo discorsiva e aneddotica, ecco che ci viene in soccorso Pierre George con “La geografia economica dell’Unione Sovietica“:

L’attuale economia dell’Unione Sovietica è un’economia socialista che si trova impegnata, a causa delle congiunture storiche, in una duplice emulazione: superarsi continuamente per accrescere la sua capacità di offerta di prodotti d’uso e consumo, gareggiare con le economie capitaliste più avanzate, e, per questo fatto stesso, eliminare la possibilità di una prova di forza. L’Unione Sovietica esercita, d’altra parte, una funzione di assistenza ideologica, scientifica, tecnica e materiale nei riguardi delle economie hce a loro volta costruiscono il socialismo.

1. Creazione di mezzi di produzione e creazione di beni di consumi. La legge fondamentale del socialismo è stata così enunciata da G. Stalin nella sua ultima opera (Problemi economici del socialismo in URSS): “Assicurare al massimo il soddisfacimento dei bisogni materiali e culturali continuamente crescenti di tutta la società, sviluppando e perfezionando costantemente la produzione socialista sulla base di una tecnica superiore”.

Stalin è morto nel 1953…chissà come è andata poi l’economia sovietica negli anni successivi? Chi lo sa! Bisognerebbe spulciare ancora meglio la nostra biblioteca e cercare di capire cosa pensasse di Stalin e della sua politica colui che gli successe, Nikita Chruščëv. E oggi dov’è, l’URSS?

Ma forse il nostro viaggiatore sognatore non vuole soffermarsi troppo sulle gioie del socialismo reale e sulle fredde lande dell’est (che in realtà non sono mica tutte fredde, ma tant’è). Potremmo allora fare un rapido balzo nell’estremo occidente d’Europa (tanto si tratta di passare allo scaffale precedente, nulla di più) e planare dolcemente nella solatia e aprica Spagna. Vediamo cosa ci offre la nostra biblioteca.

A farci da Cicerone in Spagna è un libro di H. Morton edito da Garzanti “La Spagna“. Anche in questo caso si tratta di un diario di viaggio.

“Era proprio così che mi aspettavo la Spagna atterrando all’aeroporto di Madrid. Da secoli sono scomparsi gli alberi e il suo scheletro giace rigido, nudo, variegato di diverse sfumature di burno. Il paesaggio si staglia in tutta la sua purezza, contro gli spazi cristallini i colli sfumati di azzurro e porpora che si innalzano al cielo. Tre o quattro cirri, caratteristici della Castiglia, si disegnano nel cielo come sbuffi di locomotive o ali piumate di cherubini.

La prima cosa che mi colpisce sono i guanti di cotone bianco infilati dai doganieri prima di metter le mani nei bagagli. Imparo presto che i guanti sono un simbolo della dignità spagnola. Il guanto è una simbolo aristocratico, portato a suo tempo solo dai re e dai vescovi. Con il mondo divenuto più democratico, è diminuito il numero dei guanti, e la mano che lavora è sempre nuda.

La mia stanza è assolutamente impersonale: potrebbe essere quella di un albergo di Londra, Parigi o Roma, e il solo tocco spagnolo è il quadro della Crocifissione appeso sul letto.

Dopo aver combattuto con la cinghia della serranda, arnese sconosciuto nei climi meno assolati, l’ho alzata di un metro o due per scoprire la vista lasciando entrare i raggi del sole pomeridiano. Alla sinistra vi è un grande seminario, dove un prete solitario misura a passi lenti il corridoio, tenendo il breviario in mano. E’ il solo segno di vita nella siesta di Madrid o almeno in quella parte della città visibile dalla mia finestra. Quella figura nera che cammina avanti e indietro mi è apparsa come il simbolo della Spagna: un rappresentante instancabile dell’ortodossia, che si staglia sprezzante sullo sfondo di un pomeriggio assolato, rovente. Lo stesso prete deve aver camminato imperturbabile accanto all’eretico accompagnandolo al rogo, e Filippo II deve aver percorso con gli stessi passi misurati i corridoi dell’Escorial.

Sono le tre pomeridiane. Più di una volta ho allungato la mano verso il telefono, ma poi l’ho ritirata ricordando dove fossi. Che terribile sconvenienza sarebbe rovinare la siesta di un amico! Bisogna aspettare almeno un’ora prima di chiamare qalcuno al telefono. Cosa fare? uscire, passeggiare lungo la parte in ombra della strada, passare dinanzi ai negozi chiusi? No, la letargia, il primo dono che la Spagna offre allo straniero, ha già il sopravvento, e penso che la cosa migliore sia fumare una sigaretta e aspettare il risveglio di Madrid.

Squilla il telefono: la siesta è finita. Si odono nuovamente i fischi dei vigili, lo sferragliare dei tram affollati, i motori di vecchi tassì; le saracinesche si alzano nuovamente a mostrare le vetrine dei negozi.

“Pronto” dice una voce amica “Benvenuto in Spagna! Vuoi cenare con me questa sera? Bene! Verrò da te verso le dieci.”

“Verso le dieci?”

“Sì, è troppo presto?”

“No, ti aspetterò a quell’ora.”

Ed io, che considero un dei massimi piaceri della vita quello di andare a letto alle dieci, sospiro preoccupato.

Abbiamo cenato in una piccola trattoria nei pressi dell’albergo, che mi ricorda vagamente il vecchio Café Royal. E’ in stile floreale, con velluti rossi e cupidi dorati. Ci sono credenze massicce, specchi dorati, candelabri di argento, e sembra che i camerieri siano stati scelti in modo da armonizzarsi con l’atmosfera fin de siècle. Mi è stata mostrata una piccola stanza cinese interna, quella ove la scandalosa Isabella veniva a volte dalla scala di servizio per incontrarsi con l’ultimo amante di turno.

Abbiamo ordinato del langostino, che è un crostaceo della baia di Dublino, freddo con maionese, tournedos con funghi una salsa fatta con vino di Porto, e fraises du bois con succo di arancia. Abbiamo bevuto un pallido Xeres secco e un robusto Rioja rosso.

“E’ dall’ultima guerra che non ho visto gente così ben vestita in nessuna capitale europea” osservo.

“Sì, ma devi ricordare” risponde il mio amico “che ogni spagnolo si sente in fondo un “Grande di Spagna”, e che per far bella figura è disposto a spendere fino all’ultimo centesimo. Migliaia di persone ben vestite che hai notato questa sera, con abiti ben tagliati e scarpe di Maiorca cucite a mano, non hanno che un solo abito, e la sera vanno a dormire in qualche dormitorio. In Spagna puoi essere povero in canna, ma devi badare a fare bella figura. Con le ragazze è la stessa cosa. I loro vestiti sono piuttosto modesti, ma molto graziosi. Il salari sono bassissimi, così bassi che che gli spagnoli che non riescono ad “arrangiarsi”, o ad ottenere una delle tante sinecure, debbono accollarsi nelle ore libere una attività straordinaria, come quella di insegnare lingue. Conosco uno che ha sei occupazioni diverse. Si dice che lo spagnolo sia pigro. Dovresti vedere invece come lavorano alcuni di loro. Non trovando mai gli spagnoli nei loro uffici, lo straniero trae la conclusione che siano ancora a letto, ma la verità è che, probabilmente, cercando di guadagnarsi altrove un’onesta peseta.

“Allora si deve concludere che qui non esiste quella spaventosa miseria di cui si parla tanto all’estero?”

“No, per lo meno non quest’anno. Abbiamo avuto due buoni raccolti. Il guaio per la Spagna è che essa non dispone di riserve: si vive di raccolto in raccolto. Basta un cattivo raccolto perché si formino le code per il pane. Quanto si è scritto sulla miseria spagnola risale a due anni fa, dopo una serie di cattivi raccolti. E’ vero che la stampa europea ama esagerare le difficoltà della Spagna. Non riuscirai mai a convincere uno spagnolo che i redattori di alcuni dei più noti giornali inglesi o francesi o italiani non siano dei cripto-comunisti.

“Franco è popolare?”

“Nessuno è mai popolare in Spagna. E’ una vecchia tradizione spagnola! Franco è rispettato per aver messo fine alla guerra civile e per aver ridato pace alla Spagna, e a mio parere il modo in cui ha saputo guidare il paese nell’Europa del dopoguerra è un miracolo. Penso che sia giusto dire che l’uomo medio ammira Franco nella misura in cui uno spagnolo può ammirare un altro spagnolo vedendo in lui una persona onesta. D’altra parte, tutti i governi del nostro paese si sono arricchiti e tutti lo sanno.”

“Com’è Franco?”

“E’ un soldato timorato di Dio, al pari di Cromwell. La spada in una mano e la santa reliquia nell’altra. Sarebbe stato perfettamente felice in una guarnigione militare. Non ha ambizioni dinastiche, non ha figli maschi. La sua unica figlia è maritata, ed egli conduce una tranquilla vita domestica nell’antico palazzo del Pardo, a 16 miglia da Madrid. Non è affatto un dittatore nel senso europeo della parola. E’ soltanto un soldato che ha domato una rivolta, ha proclamato la legge marziale e intende che la legge va rispettata”.

“Cosa pensi del futuro?”

“Come si può pensare al futuro in questo mondo? Tutti si chiedono quale sarà il futuro della Spagna. La gente in Inghilterra e in America non capisce che il defunto Alfonso XIII non ha mai abdicato. Si è semplicemente tolto di mezzo per andare in esilio. La Spagna è veramente una monarchia senza re. Franco è il capo dello Stato ed è tenuto un giorno o l’altro a ridarci un re. Se qualcosa dovesse capitare a Franco, e naturalmente se il paese non insorge, dovrebbe succedergli un Consiglio di Reggenza. Questo fu deciso dal referendum tenuto nel 1947, quando a favore del ritorno della monarchia votarono in 14 milioni contro uno.

“E chi sarà il nuovo re di Spagna?”

“Nessuno lo sa di certo. Alfonso ha lasciato un figlio, Don Juan, un uomo ormai di mezza età, che vive in Portogallo. Ha un figlio di sedici anni, Don Juan Carlos, che viene educato dai gesuiti, e la maggior parte della gente crede che un giorno sarà lui ad essere scelto come re.”

“Tu cosa pensi?” chiedo al mio amico.

Da buon spagnolo allarga le braccia per farle ricadere con un senso di disperazione.

“Cosa si può dire? Alcuni credono che la Spagna sia tendenzialmente monarchica, altri che il ritorno del re, di qualsiasi re, scatenerà una nuova guerra civile. Chi lo sa?”

Discutiamo poi degli aiuti americani e della necessità che ha la Spagna di macchinari agricoli e di altre cose. Il mio amico osserva che alcuni spagnoli sono sono contrari agli aiuti americani. Essi temono che la Spagna, dopo aver evitato due guerre mondiali, possa essere trascinata in una terza”

Cambiamo argomento e parliamo delle donne spagnole. Io osservo che le migliaia di señoritas che si vedono in giro per le strade sole o col fidanzato non corrispondono all’idea dominante che le donne in Spagna siano strettamente vigilate.

“Tutto questo è cominciato durante la repubblica, e la guerra civile ha completato l’opera. Una volta, durante la guerra, le truppe franchiste che assediavano Madrid si trovarono schierato di fronte un battaglione femminile che cominciò a sparare con i fucili e le mitragliatrici.”

“E come andò a finire con la vecchia galanteria spagnola?”

“Per quanto ne so, credo che non si sia sparato alle ragazze mentre scappavano! Lo dico per dimostrarti che un paese non può passare quello che la Spagna ha passato e avere ancora donne velate. Le donne hanno avuto diritto di voto e ancora lo hanno. La repubblica aveva ammessa il divorzio, ma naturalmente la Chiesa vi ha ora posto termine.”

Interessantissimo questo detour politico-sociale! Chissà come sono andate le cose in Spagna dopo Franco! Magari potrebbe raccontarcelo qualche studente Erasmus o qualcuno dei vacanzieri che ancora l’estate scorsa affollavano le località di mare spagnole.

Sarebbe anche interessante andare a recuperare qualche pagina di Hemingway (“Per chi suona la campana” ad esempio) per sapere se l’amico di Morton è davvero ben informato sulla guerra civile spagnola. Si sarebbe potuta chiedere anche l’opinione di Federico García Lorca, il poeta, se non fosse che venne fucilato contro un muro il 19 agosto 1936, durante la guerra civile, dai franchisti. Per fortuna qualcuno ebbe la sorte di parlare con Garcia Lorca prima dell’esecuzione, e di raccoglierne le parole che riportiamo qui:

“Io sono uno Spagnolo integrale e mi sarebbe impossibile vivere fuori dai miei limiti geografici; però odio chi è Spagnolo per essere Spagnolo e nient’altro, io sono fratello di tutti e trovo esecrante l’uomo che si sacrifica per una idea nazionalista, astratta, per il solo fatto di amare la propria Patria con la benda sugli occhi. Il Cinese buono lo sento più prossimo dello spagnolo malvagio. Canto la Spagna e la sento fino al midollo, ma prima viene che sono uomo del Mondo e fratello di tutti. Per questo non credo alla frontiera politica.”

Per chi vuole approfondire, c’è anche un bel libro di Javier Cércas, “Soldati di Salamina“, che nonostante il titolo ha poco a che fare con Eschilo e molto con le brutalità franchiste.

Per chi ama le figure, qui sotto c’è la celeberrima Guernica di Picasso, che rappresenta la distruzione della città di Guernica ad opera dell’aviazione tedesca alleata di Francisco Franco. L’aneddoto vuole che quando, sprezzante, un nazista della Gestapo (la Germania nazista e l’Italia fascista erano alleate di Francisco Franco) chiese a Picasso se l’avesse fatto lui il quadro, egli rispondesse “No, l’avete fatto voi“.

Prima di lasciare la Spagna, e visto che abbiamo parlato di Franco, è una bella coincidenza che Raymond Cartier, nel suo “Le 19 Europe“, edito sempre da Garzanti, abbia voluto cominciare il capitolo trentacinquesimo, dedicato alla Spagna, con la descrizione della tomba di Franco. Lasciamogli la parola:

La colossale croce alta 150 metri domina la scarpata rocciosa nella quale è stta scavata una basilica sotterranea. La si scorge da una distanza enorme, nell’aria castigliana, sopra dei nudi e grandiosi altipiani della Sierra de Guadarrama. L’Escuriale è a una quindicina di chilometri, Madrid a una quarantina. D’inverno, le temeste che si abbattono dalle montagne sulla capitale fnno urlare intorno alla grande croce burrasche di neve. D’estate, uno sole pesante cade e rimbalza sulla roccia grigia. La basilica è dedicata alla morte. La prima idea fu di erigere in quel luogo la tomba di Primo de Rivera, le cui spoglie erano state provvisoriamente deposte nella tomba dei re di Spagna. Si volle in seguito fare della basilica un ossario per i caduti della guerra civile. Per tutti i caduti della guerra civile. “Coloro che sono morti per difendere la loro patria e coloro che sono morti per consegnarla al comunismo dormiranno, a fianco a fianco, sotto l’ombra riconciliatrice della croce…”. Ma si dubita che questo intelligente gesto di pietà sia possibile, sia per la resistenza dei vinti, sia per la ripugnanza dei vincitori.

Per tutti gli spagnoli, il monumento della Vallata dei Caduti porta un nome: la tomba di Franco. Sotto la pesante croce, più alta della torre di una cattedrale e tuttavia tozza come il crocifisso di un monaco, il capo dello Stato spagnolo dormirà il suo ultimo sogno.

Nessuna delle sue decisioni gli ha procurato più rimproveri. “Da quindici anni, Franco si è occupato più della sua tomba che della Spagna…”. Le voci più fantastiche corrono sui lavori della Vallata dei Caduti. Si dice che siano costati due miliardi e mezzo di pesetas, il prezzo di una diga in un paese dove le grandi città sono a volte prive di elettricità diversi giorni alla settimana. Si dice anche che siano stati eseguiti da una manodopera forzata: prigionieri di guerra e prigionieri politici. Le autorità spagole rspingono le due accuse. Sostengono che il monumento della Vallata dei Caduti inaugurato ne luglio del 1958, non è costato nulla al bilancio; fu costruito esclusivamente con donazioni private. E’ l’equivalente di una cattedrale del Medioevo scaturita da un movimento generoso e spontaneo…

“Generosità” e “spontaneità” nell’erezione di un monumento funebre per un dittatore che sarebbe morto soltanto nel 1975 sono indice…di cosa? Sarebbe interessante recuperare la storia successiva del monumento, della croce e della salma di Francisco Franco, che dal 2019 non è più lì.